È affascinante e insieme spaventoso osservare quanto i nostri figli siano uguali a noi. Stesse espressioni, stesso identico modo di fare. Atteggiamenti in cui ci rivediamo come davanti a uno specchio: si fa finta di non vedere certe cose, ci si motiva a soffermarci sul meglio di noi stessi.
Dei miei due figli uno è chiaramente
Italiano – è uguale a te mi dicono tutti, se non fosse per il
colore dei capelli e l'accento. L'altro è tutto suo padre, una
teutonicità in divenire che mi fa stranire tutti i giorni,
nonostante conosca ben bene la metà del suo DNA.
Ieri il mio più simile ha dimostrato
per l'ennesima volta di aver ereditato ogni cellula del mio carattere
dando prova di magistrale attacco di bottone con perfetti
sconosciuti.
La scena la vediamo da 100 metri di
distanza: sfreccia con il suo roller davanti alla gelateria del Signor Paolo, inchioda, si mette a chiacchierare. Noi allunghiamo il
passo per accertarci che il bambino non stia disturbando la Ruhe
dei signori seduti al tavolino. Ci si abitua dopo un po' a credere
che parlare senza motivo a gente che non si conosce sia un'invasione
della sfera privata, qui sacrosanta e inviolabile. Si comincia a
prendere la mano con questa chiusura, tanto che si resta sempre
sorpresi quando, raramente, qualcuno ci approccia così, senza
motivo, solo per il gusto di scambiare segni di voce (in 10 anni
forse 3 volte con tedeschi, per fortuna varie volte con stranieri).
Breve scambio in tedesco, un accento
fin troppo famigliare, e poi è svelato il motivo dell'approccio:
Davide, sentendoli parlare, si è fermato per chiedere “siete
italiani?”.
Che meraviglia, che orgoglio.
Esattamente come facevo io all'inizio (qualcuno si ricorderà forse
la mia "Preghiera di una milanese estroversa si suoi connazionali d'oltre cavolo" che mi costò un bel po' di critiche),
e come faccio ancora ogni tanto quando sono in vena.
E come sempre, quando un gruppetto di
italiani s'incontra per la prima volta, non c'è argomento di
conversazione migliore di “Amburgo è una città bellissima se non
fosse per la pioggia. E per gli Amburghesi”.
Eleonora è di Torino, Gabriele e
Lorenzo non ho chiesto, quindi tra Italiani del nord scatta sempre il
“per carità, anche da noi il tempo non è come a Taormina, abbiamo
la pioggia, abbiamo la nebbia, l'inverno è freddo... però almeno
d'estate fa caldo, puoi uscire solo in canotta. Poi sì, bella è
bella Amburgo. Però a sciare non ci puoi andare che è lontano, il
mare sarà anche a 1 ora di macchina ma lasciamo stare.. (mica sarà
mare quello lì), ci sono un sacco di parchi ma non ci puoi andare
che piove...”
Poi Eleonora approfondisce. “Almeno a
casa ti scaldano le persone. Ti mancano le uova per fare la torta?
Vai dalla vicina, che conosci da sempre, che alla fine si guadagna
una fetta di dolce per il semplice fatto di apriti la porta di
casa.”. In 11 anni Eleonora non sa nemmeno come si chiama, il suo
vicino. “Qui ti si gela il cuore anche solo al telefono” -
aggiunge. Poi si passa al mitico argomento Verabreden. Inviti
a cena organizzati con mesi di anticipo. Mamme che si danno
appuntamento al parco giochi con settimane di preavviso anche se
vanno nello stesso parco giochi tutti i giorni alla stessa ora –
“solo che così siamo verabredet e ci sediamo sulla stessa
panchina”. Il contatto sociale trattato come un meeting da
registrare in uno slot del calendario.
Si ride un sacco, alla faccia degli
Amburghesi, alla faccia di Sven che ormai è abituato a certi
discorsi e, anzi, ci inserisce il punto di vista di un tedesco
dell'est - “quando piove tutti i giorni c'è ben poco da
sorridere...”
Ecco perché in giornate tutte di sole
come queste, davvero poche quest'anno, le persone aprono la loro
corolla e si spingono a sorriderti in faccia.