Chiunque abbia
avuto l’occasione di trovarsi a contatto con genitori tedeschi, non importa se in
un parco giochi di Amburgo o in vacanza sul lago di Garda, non può non aver notato
una cosa. Le mamme (e i papà) tedeschi non urlano. Mai. E con urlare non
intendo solo lo sbraitare esasperati dietro a un bambino dopo che gli si è
chiesto di mettersi le scarpe per 25 minuti di fila. Oppure il gridare da una
stanza all’altra, o da un piano all’altro, che la cena è pronta. Per 18 volte.
Mi riferisco
anche ai casi in cui il richiamo è un mezzo necessario a recuperare la prole
dispersa o, in casi più estremi, a salvarla da situazioni potenzialmente pericolose.
Prendiamo un
esempio: la spiaggia.
Se si va su una
spiaggia del mare del nord e si vuole richiamare il bambino che nel giro di un
minuto e mezzo si è allontanato di 3 km, si hanno di fatto solo due
alternative.
1) Ci si mette a
correre dietro al pargolo. Considerando però che anche lui nelle sue giovani
gambe sta correndo, per raggiungerlo bisogna essere o mezzofondisti semi
professionisti, o bombarsi di droghe, o essere il cugino di terzo grado di
flash.
2) Raccogliere
l’aria fino al fondo del diaframma e lanciare un acuto operistico per
richiamare l’attenzione del fuggitivo. Il vento amplifica il vibrato della
voce, la spiaggia diventa un palco prestigioso, i passanti un pubblico
ammutolito.
Io opto di solito
per la seconda senza nemmeno ponderare la prima possibilità.
Quando il bimbo
che scappa non è di Milano ma di Oldenburg, la mamma in questione sa benissimo
che con la terza gravidanza in corso non raggiungerà mai il piccolo
Maximilian-Leopold. Urlargli dietro non solo sarebbe irrispettoso verso gli
astanti ma anche una violenza contro la dignità del bambino come persona – oltre
al fatto che, non avendo mai urlato prima, la madre non saprebbe nemmeno come
attivare l’apparato fonatorio per una simile distanza.
Ecco che trova
applicazione la mia teoria, sviluppata dopo anni di studi e osservazioni.
La mamma non fa
altro che mandare un segnale a ultrasuoni che, trasportato dal vento, arriva a
connettersi con il cervello del bambino il quale di colpo si ferma, codifica il
messaggio, si gira e corre verso la sua mamma a braccia aperte, i passi resi un
po’ goffi dagli stivali di gomma dell’Aldi (e sul significato sociologico degli
stivali di gomma vi rimando qui). Il pubblico non si è accorto di niente, a
parte me che sono a bocca aperta nonostante abbia finito di urlare il nome del
mio cinque minuti prima.
Se si è su una
spiaggia italiana, facciamo in Liguria, il proprio urlare ai bambini di uscire
dall’acqua - perché sono quasi le sette e il sole è andato via e dobbiamo
ancora farci la doccia e preparare da mangiare - si mischia ai richiami di una
dozzina di altre mamme ritte sul lettino o in piedi sul bagnasciuga con le mani
alternativamente sui fianchi e a megafono intorno alla bocca. Quest’estate, in
Liguria, una mamma passava i pomeriggi a urlare dietro al suo bambino, omonimo
del mio, risparmiandomi buona parte del lavoro – cosa di cui vorrei ringraziarla
pubblicamente, in quanto mi ha donato qualche ora di scrittura in più,
garantendomi la sicurezza che il mio bambino, seguendo alla lettera i suoi ordini,
non si allontanasse dalla riva, non bevesse, non disturbasse gli altri bagnanti
con schizzi e pallonate.
La mamma tedesca
in vacanza sulla stessa spiaggia, invece, quando dopo il tramonto i suoi bambini
sono gli unici a mollo ben oltre la boa, non fa altro che mettere la mano a visiera
sopra gli occhi per metterli a fuoco, e questi come automi tornano indietro.
Che il vantaggio
dei genitori tedeschi sia di tipo genetico è dunque indiscutibile. Ciò mi fa
sentire meno in colpa, meno sbagliata. E mi fa credere che anche la santa
pazienza non sia una virtù bensì una dotazione evoluzionistica.
Prendiamo un altro
esempio classico: i capricci.
Anche i bambini
tedeschi fanno i capricci. Anche loro si sdraiano per strada sbattendo piedi e
pugni sull’asfalto piangendo come disperati perché il wurstel che hanno regalato
loro all’Edeka è caduto ed è stato tirato su al volo da un cane. Io dopo
ripetuti tentativi di consolazione alternati a minacce di abbandono, divieti di
guardare Paw Patrol fino alla maggiore età, telefonate minatorie a Babbo Natale
con modifiche irreversibili alla lista dei desideri, a un certo punto esco
dalle grazie divine e carico di peso il soggetto urlante, cercando di liberare
la scena del crimine il più in fretta possibile. Loro, invece, le mamme
tedesche, che oltre al bimbo disperato di turno ne hanno un altro nel
passeggino e uno minuscolo nel marsupio, non si scompongono. Stanno lì e aspettano.
Senza dire niente. Non si fanno influenzare dagli sguardi dei passanti, sguardi
che nella maggior parte dei casi non sono di biasimo ma di solidarietà. A un
certo punto, quando il segnale arriva a destinazione, il bambino
automaticamente scatta in piedi, piange ancora per qualche metro, dopo di che torna ad essere il tranquillo tedeschino di prima, che saltella nella sua tuta antipioggia della
Tchibo senza pulirsi il moccolo che gli fuoriesce dal naso.
Care “temperamentvolle”
mamme italiane, cari papà, non è colpa nostra! È che loro sono proprio programmati
così. Lo vedo con mio marito, che riesce a non perdere le staffe nemmeno la
domenica sera alle otto quando magicamente i compiti di matematica da
consegnare il lunedì si materializzano in cartella. Se provo a far fare i
compiti io, è uno strazio di ore con coro di minacce e controcanto di “odio la
scuola”. Se si mette lui, nel giro di un quarto d’ora il bambino è a letto e
prima di chiudere gli occhi dice che Mathe è la sua materia preferita. Si
capisce quindi che nel caso di bambini misti il sistema di ultrasuoni è stato
trasmesso e funziona, ovviamente solo se attivato dalla fonte tedesca.
In alcuni casi,
però, è bene fare i conti con qualche interferenza, per esempio in spiaggia in
Liguria.