Il primo dentino, la prima pappa, i primi passi. La prima volta al mare, il primo giorno al nido, il primo viaggio dall’altra parte del mondo.
È l’unico sport
che abbiamo trovato ad un orario cristiano. Perché noi, entrambi a tempo pieno
e senza nonni, non possiamo di certo permetterci di portare il bambino in
piscina alle 14.30 di martedì o a karate alle 15 del giovedì. La scelta è stata
quindi più pragmatica che passionale. Solo che qui – come immagino ovunque – il
calcio si pratica in modalità “o tutto o niente”. L’allenamento, due volte alla
settimana, non è e non deve essere fine a se stesso. E quindi la domenica c’è
la partita. Anzi, tutte le domeniche c’è la partita.
Eccolo qui, un
metro e venti in divisa gialla e blu di due taglie più grandi, l’incubo che mi
si era parato davanti al monitor blu quando il ginecologo confermò che stavamo
aspettando un maschietto. “Frau Gambini, dia via le Barbie”. Giubilo da stadio
lui. Io con già l’odore di piedi e spogliatoio nelle narici.
E oggi, quasi sei
anni dopo, viviamo la nostra prima domenica da genitori di un mini calciatore. Sì
che noi il calcio lo detestiamo e, soprattutto, detestiamo l’idea che destabilizzi
la nostra routine famigliare.
Conoscendo mio
figlio ero sicura che al più tardi al terzo allenamento avrebbe mollato – non è
un tipo da sporcizia e scontri. E invece nonostante la pioggia, le cadute e le
pallonate in faccia continua a voler andare agli allenamenti. E tanto ha fatto,
che è stato convocato.
In 40 minuti di
gioco ha toccato palla 3 volte, di cui la prima con entrambe le mani. Una presa
decisa, ferma. Non male per un terzino. Lo
dico senza vergogna: Davide è decisamente un fuori classe. Non credo infatti
che esista una categoria in cui classificarlo per quanto è scarso. Corre come
un ossesso, nel 90% del tempo a vuoto, ma almeno dalla parte giusta, e quando
arriva la palla la lascia gentilmente passare, quasi che prenderla a calci potesse
farle male. E lo stesso fa con gli avversari, che vengono fatti procedere con
estrema cortesia, perché farli cadere non è educato.
Gli altri non
fanno certo di meglio. Il portiere più che parare la porta passa il tempo
a pararsi la faccia. Lo schema di gioco poi consiste nell’andare tutti dietro alla
palla, che tanto qualcuno per sbaglio riesce a calciarla. Tutti in avanti verso
l’area di rigore, la difesa completamente deserta – perché anche il portiere
ogni tanto un’occhiata davanti ce la va a dare. E, come da manuale, scatta il
contropiede, porta libera, gol.
L’unica eccezione
in questa squadra scalcinata di Ronaldinhi è Levi. Levi è il figlio di uno degli
allenatori. Dribla, scarta, allunga sulle fasce laterali, tira a effetto. Praticamente
è venuto su a tetta e calci d’angolo.
Levi è un po’ l’Oliver Hutton della Niuppi dei primordi, con la differenza che almeno i compagni di Holly
per non fare danni se ne stavano fermi. Invece il povero Levi combatte non solo
contro gli avversari, ma anche contro la propria squadra che lo insegue
buttandosi in massa sulla palla. Ad un certo punto, verso la metà del secondo
tempo, Levi infortunato. Panico tra gli spalti. Senza Levi possiamo direttamente
ritirarci dal torneo – nella partita precedente aveva segnato 11 gol. Partono
le scommesse su quante reti ci pigliamo ora che è fuori. E invece, per
fortuna, dopo solo 3 gol Levi torna in campo.
La partita finisce
10 a 8 per gli avversari. I nostri perdevano 6:2 al primo tempo e hanno
recuperato alla grande nel secondo. Dei 10 gol che hanno subìto, 2 erano
autoreti. Non importa, a quasi sei anni l’importante è il pensiero. Degli 8 gol
che hanno segnato, 6 erano di Levi, uno su assist di Levi, uno autogol.
Un paragrafo lo
meritano anche i genitori a bordo campo. Ho avuto lo stesso shock che provai la
prima volta al mercato rionale. Il silenzio. Giusto ogni tanto un “los los los”
a voce appena appena più alta. Per il resto il tifo è zero o quasi. La
polemica? Neanche per sogno, nemmeno quando Levi è stato buttato giù che era
chiaramente rigore! E ai gol giusto un applausino. Niente salti, niente braccia alzate, niente poporopopopopo.
Tutti educati e sportivi a 1 metro e mezzo dal campo come da contratto firmato
per entrare nel club. Le mamme spaziano da quella già pronta con il cerotto in
mano a quella che non stacca il naso dal telefono. I papà a braccia incrociate
che seguono la partita cambiando smorfia a seconda della metà campo in cui si
trova il pallone. Per fortuna ci sono due eccezioni: il papà di Ufuk e la mamma
di Davide. Lui il solito turco, lei la solita italiana. Lui che praticamente fa
da controcanto all’allenatore guidando a uno a uno i passi del figlio, io che
motivo al squadra ad andare dalla direzione giusta e faccio notare i falli.
Uniti nei festeggiamenti delle reti (di Levi), tecnicamente consapevoli delle
mancanze tattiche della squadra, rassegnati ad incontrarci spesso la domenica per
fare il tifo ai nostri adorati e scarsissimi mini calciatori.