Il momento di cancellare un altro numero dalla
rubrica del telefono è arrivato. Avrei dovuto farlo già ad agosto 2011 e a
dicembre 2012. E invece rimando sempre questa piccola operazione, come se
lasciare quei numeri che ho chiamato così spesso riportasse indietro le persone
che rispondevano dall’altro capo del filo.
Vivere altrove porta a legarsi in modo stretto
alle persone speciali che si incontrano sulle strade di una città in cui non si
è cresciuti. Persone su cui contare nel momento del bisogno perché quando si è
tutti lontani da casa si sopravvive sostenendosi a vicenda nei momenti
terribili ma anche vivendo insieme episodi ed eventi indimenticabili.
Una cosa abbiamo in comune noi cervelli in fuga o
cuori dietro a una mente vagante: non ci fermiamo mai. Una città non è per
sempre. Non sappiamo dove ci porterà il prossimo contratto e non sappiamo dove
l’ennesima offerta porterà i nostri amici. Abbiamo lavori che ci invidiano ma
viviamo in una precarietà di rapporti che, però, non ci spaventa. Sappiamo che
le distanze sono e saranno solo qualcosa di fisico e che le amicizie vere non
hanno bisogno di ore passate in un bar, al telefono o su Skype.
Quando è partita Sandra ero incredula. Se ne
andava una delle poche che non si faceva buttare giù dalle intemperie
amburghesi e, anzi, le trovava innocue, perché quando si è vissuti a Glasgow
per un po’ si impara ad apprezzare ogni singolo raggio di sole.
Poi è partita Marta e ho reagito con rabbia. Mi
sono sentita tradita! Mi aveva fatto credere di essere a posto per sempre, di
aver trovato un’altra anima in pena tra asilo e parco giochi, una spalla su cui
piangere quando il vento ti mena e un’altra spalla a cui aggrapparsi quando si
barcolla dal ridere. Il mio opposto, la mia torcia nei momenti di solitudine
nera.
L’altro ieri è partita Vale.
E io non sento niente.
La prima lettrice e fan del mio blog. La
pasticcera che fa torte talmente buone da far dire parolacce in serie. Vale che
è stata con me in una sala d’attesa senza chiedere niente quel giorno che ho
scoperto che essere donna può essere una maledizione. Quella che mi ha
insegnato che per essere felici bastano piccole cose come pensare alla propria
mamma e mettersi un girasole in casa.
Abbiamo condiviso un incrocio e un lavoro, siamo
state agli stessi quattro matrimoni, abbiamo grigliato stoicamente sotto la
pioggia e compiuto la prima impresa eroica in bicicletta.
Diverse in tutto eppure un punto di riferimento
fondamentale, un volto famigliare in una routine lontana migliaia di chilometri
dalla vita di prima.
Sono stata nel suo appartamento a prendere le
prime cose che mi ha lasciato in eredità. A parte l’eco dei miei movimenti che
rimbalzava sui muri e sulle superfici vuote non ho sentito niente.
Al momento degli
addii c’è chi piange, chi ride, chi fa battute stupide, chi guarda per terra,
chi ripete ossessivamente la stessa frase di circostanza, chi cerca una scusa
per andare via in fretta.
Io mi
autosomministro la mia anestesia totale, sapendo bene però che il vero strazio
è smaltirne i postumi.